Il Salone del Gusto: l’attesa

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Ci siamo quasi, nemmeno una settimana e sarò al Salone del gusto di Torino!

Embè, mi direte…

…non come una che se ne va a zonzo senza una meta, una semplice visitarice, ma come rappresentante dell’Aifb e story teller nello spazio di Garofalo, a cui porgo i miei ringraziamenti per questa opportunità, dove tutto ruoterà intorno ad un progetto nato dalla collaborazione con Niko Romito: Unforkettable.

Il cibo per me, come spesso succede con una canzone, è la colonna sonora della mia vita, spesso evocativo di un ricordo, di un momento particolare, mi lega indissolubilmente ad emozioni e persone, spesso legati alla mia infanzia e alla mia meravigliosa terra: la Liguria.

Per questo al Salone del Gusto mi piacerebbe poter riaprire i cassetti della memoria dove conservo i racconti di mia madre e della sua giovinezza, la cucina di mia zia in occasione delle feste, densa di vapori e traboccante di sinfonie di odori, le donne di famiglia riunite a dare ciascuna il suo contributo, dove la parola convivio si riappropriava della sua etimologia

convivio’ da ‘cum vivere’, vivere insieme, una parola che propone un’identità fra l’atto del mangiare e quello del vivere. E, veramente, poiché il cibo è la sostanza della vita, ciò che la rende materialmente possibile, esso si presta più e meglio di ogni altra cosa ad essere assunto come metafora dell’esistenza.”

Per questo al Salone del Gusto vorrei trovare quei cibi che facciano risalire i ricordi vivi e forti dal mio inconscio, capaci di emozionarmi attraversando tutti e cinque i miei sensi.

Le mele 
ma non quelle tutte uguali che troviamo sul mercato in poche varietà, quelle che da bambina raccoglievo in campagna, tenendo il cestino a mio nonno che con la scala a pioli di legno appoggiata all’albero (sì, perchè gli alberi erano alti e non allineati in ordinati filari) e l’aiuto di un bastone terminante ad uncino per avvicinarsi i rami, le staccava dall’albero.
Mele Teresa, Carla, Cappelletta, Roncallina, magari poco attraenti, di piccole dimensioni, con lenticelle rugginose, spesso con un sapore acidulo (io da bambina infatti le adoravo come dessert, cotte e frullate in crema) ma con un profumo che riempiva la casa.

Le nespole comuni Sciscerbue o nespole da inverno
mi diceva spesso mia madre quando fremevo per ottenere qualcosa “con il tempo e con la paglia maturano le nespole” cioè ci vuole pazienza, occorre aspettare per avere dei risultati, un proverbio che fa riferimento a questi frutti presenti in Europa da tempo memorabile, che non vanno confuse con quelle del Giappone, quelle che noi oggi conosciamo come nespole.
I frutti del nespolo comune, di dimensioni tondeggianti e coperti da una finissima peluria, non possono essere consumati appena raccolti, nel tardo autunno, a causa del loro il sapore acido ed astringente ma vanno lasciati maturare al buio in mezzo alla paglia, finchè il colore da marrone chiaro diventa più scuro. La trasformazione enzimatica trasforma la polpa rendendola dolcissima e cremosa, anche se c’è un solo modo per consumarle al naturale, come mi raccontava mia madre: tolto il picciolo la polpa si succhiava la polpa e si sputavano i semi…per i bambini era una leccornia!

Le acciughe sotto sale
Mettere le acciughe sotto sale è uno dei metodi di conservazione più antichi, le prime documentazioni risalgono al Medioevo.
A Genova, repubblica marinara, la pesca e la lavorazione delle acciughe rappresentavano per molte famiglie, che abitavano lungo la costa, un vero e proprio mezzo di sostentamento.
Consumate come antipasto e come base di primi e secondi piatti, la ricetta tradizionale vuole che vengano disposte in un barattolo, completamente immerse in buon olio extra vergine di oliva con l’aggiunta di abbondante prezzemolo, aglio e origano.
Se vado a frugare nei miei ricordi di bambina vedo sullo scaffale in cantina  le arbanelle (così chiamiamo i contenitori di vetro che adesso vengono venduti con il coperchio di plastica che non fa evaporare la salamoia ed evita di doverla rabboccare) con un disco di ardesia che ci si infilava dentro alla perfezione e sopra un blocco di marmo o una pietra di mare a fare da peso, accanto la bottiglia con acqua e sale per il rabbocco ogni qualvolta il livello del liquido non era sufficiente a coprirle…ricordo ancora quel profumo penetrante di salmastro: erano giusto all’altezza del mio naso.

Le gallette del marinaio
La galletta del marinaio è un pezzo importante della storia enogastronomica ligure: non può mancare nel Cappon Magro (sempre presente sulla nostra tavola a Natale), nella Capponadda (gallette bagnate con l’acqua di mare, condite con olio d’oliva e acciughe salate, la pietanza povera a bordo dei leudi e pescherecci, alla quale con il passare del tempo si son aggiunti pomodori, olive, tonno spezzettato e altri ingredienti ed è diventato un piatto prelibato)  e nel Bagnun (tradizionale piatto a base di acciughe di Riva Trigoso), si può usare nel brodetto e nella zuppa di pesce, nei passati di verdura, ma si può anche sgranocchiare da sola o con l’aggiunta di olio extravergine di oliva, sale e origano.
Si tratta di un prodotto da forno secco, una specie di schiacciatina tonda di pane bucherellata, lievemente bombata, a base di farina, acqua, malto, lievito di birra e sale.
I naviganti le portavano a bordo perchè poi potevano consumarle nel tempo senza che perdessero la loro fragranza e andassero a male.
E’ un prodotto ormai a rischio di estinzione: quei pochi che ancora fanno le gallette da marinaio seguendo i vecchi metodi si tramandano i segreti e le dosi da generazione a generazione e conservano gelosamente le loro ricette.

La quagliata ligure Prescinseua
Il termine nasce dal genovese presu che vuol dire caglio, nel ’400 era l’omaggio più prelibato che si poteva fare ai Dogi in quanto leggero e digeribile.
E’ una cagliata fresca dal gusto acidulo proveniente da latte vaccino, prodotta nell’entroterra genovese, di colore bianco e può avere una consistenza da semi liquida a semi solida.
Ancora oggi è base per molte ricette, indispensabile con il prebuggiun nei pansoti e nella vera ricetta della torta pasqualina.

Lo sciroppo di rose
Ricordo le rose profumatissime sotto la pergola di uva fragola nel giardino della mia nonna materna e all’ora di merenda lo sciroppo denso nel bottiglione che colorava il latte di rosa.
Per la produzione dello sciroppo si usano solo i petali di alcune tra le più antiche varietà di rose, la rugosa e la muscosa, utilizzate anche per le loro proprietà officinali.
Parlando dello sciroppo di rose, non posso non pensare alla grave sciagura che ha colpito Montoggio, il paese dove si trova l’agriturismo Artemisia, che fa parte dell’associazione Le Rose della Valle Scrivia, ed alla calorosa accoglienza e disponibilità di Emanuela e Daniela che mi hanno fornito materiale per un lavoro sulle rose da sciroppo che pubblicherò più avanti.

L’acqua di fiori d’arancio amaro
Derivata dalla distillazione dei fiori dell’Arancio amaro (Citrus aurantium risso), per me l’associazione con il pandolce è immediata. Emblema della pasticceria genovese natalizia, il rituale prevede che sia portato in tavola con un rametto di alloro conficcato sulla sommità, che il più giovane dei convitati porge al più anziano in segno di rispetto e continuità della famiglia. Il capofamiglia inizia con il taglio: la prima fetta di pandolce si mette da parte per il primo postulante che si fosse presentato alla porta, la seconda fetta viene conservata per essere usata contro le malattie invernali (si pensava, infatti, che fosse un ottimo medicamento per le infreddature), quindi avviene la distribuzione a tutti i presenti iniziando dal più anziano fino al più giovane.

Lo stoccafisso Stocche
A Genova, nei carruggi, in vetrina le antiche vasche di marmo con il pesce in ammollo, si trova ancora la Bottega dello Stoccafisso che serve i genovesi dal 1936.
Lo stoccafisso arriva sulle tavole dei genovesi da diversi secoli, già dalla fine del ‘500, quando le navi portavano nella Superba il pesce proveniente dal Nord Europa: sia il costo contenuto del prodotto che la sua facilità di conservazione, hanno contribuito, nel passato, al notevole consumo di stoccafisso e baccalà nelle classi meno abbienti.
Non a caso nei versi dell’antica poesia genovese “Pescio conca”, si legge: “O loasso di povei e di mainae”, vale a dire – riferito a stoccafisso e baccalà – “Il branzino dei poveri e dei marinai”. Il termine pesce conca deriva dall’uso di farlo ammollare nell’acqua.
Da quelle necessità e osservanze religiose, che proibivano la carne in certi periodi dell’anno, nacquero succulenti piatti come lo stoccafisso lesso con le patate o con le fave stocche e bacilli, accomodato, in frittelle frisceu.

Castagne secche
Fino a qualche decennio fa il castagno ha rappresentato per le famiglie contadine un importante risorsa alimentare ed economica: con il legno si fabbricavano mobili, con i polloni si intrecciavano canestri, le foglie secche venivano utilizzate nella stalla come lettiera per gli animali, il tannino si utilizzava per la concia delle pelli.
Per le famiglie dei miei nonni le castagne e poco granoturco hanno costituito l’alimento prevalente. Le castagne raccolte per lo più si seccavano su grate di legno, il secchaeso, che costituivano il soffitto della cucina della casa, attraverso cui saliva il calore del focolare.
Occorrevano tre quintali di castagne fresche per ottenerne uno di secche.
Le castagne venivano quindi ripulite dalla buccia mettendone sette od otto chilogrammi per volta in un sacchetto di tela che veniva battuto sopra un ceppo di legno.
La sera, le castagne secche erano passate a mano per separare le castagne rotte, utilizzate per la minestra col riso, mentre le altre venivano macinate in farina utilizzata in tante ricette: il castagnaccio, la pattona, le panelle, la polenta, le frittelle.

Salame di Sant’Olcese
Sant’Olcese, raggiunto anche dallo storico Trenino di Casella, era una delle mete preferite da noi bambine per le scampagnate domenicali, perchè non si mancava mai di fare scorta presso la macelleria locale di salame e cacciatorini.
Il salame di Sant’Olcese, viene insaccato ancora oggi seguendo la tradizionale ricetta: per metà bovino e per metà suino, con i caratteristici dadetti di lardo, viene asciugato al fuoco di legna e successivamente stagionato nelle antiche cantine di due famiglie che da quattro generazioni litigano sulle percentuali di suino e bovino da infilare in un budello e che non hanno alcun contatto tra loro anche se fanno il medesimo mestiere.
Prodotto a dicembre, arriva sulla tavola ancora piuttosto fresco in primavera giusto in tempo per accompagnare con il pecorino fresco le fave novelle.

Ci sono 3 commenti su Il Salone del Gusto: l’attesa

  1. stefania
    18 Ottobre 2014 alle 19:08 (10 anni fa)

    Uno scorcio di Liguria in 10 prodotti. Grazie Valentina!

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  2. Giulia Robert
    18 Ottobre 2014 alle 22:15 (10 anni fa)

    Continuo a leggere questi elenchi e ogni volta rimango di stucco! Per l’incredibile varietà di prodotti che siamo stati in grado di sognare, quei prodotti che spesso parlano di radici, e di ricordi.
    Ah, la prescinseua, che qui a Torino non trovo nemmeno morta, e che io amo e adoro, per tutti i piatti genovesi che è in grado di impreziosire con il suo sapore rustico ed elegante insieme.
    Le acciughe sotto sale, che se non ci fossero dovremmo dire ciao ad uno dei grandi piatti forti piemontesi ;)

    A presto!

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    • Valentina Venuti
      20 Ottobre 2014 alle 10:28 (10 anni fa)

      Lo sai da dove nasce la bagna cauda Giulia? Già nel tardo Medioevo le acciughe iniziano ad essere utilizzato come merce di scambio con il Piemonte, diventando poi l’ingrediente più importante del piatto tradizionale ;)

      Rispondi

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